Dalla Tesi di Laurea “Spaccaforno 1693: dall’«Orribilissimo terremoto alla “Rinascita” barocca», di Concetta Fratantonio. (Capitolo Secondo)
1. Il terremoto a Spaccaforno
Il sisma più disastroso della storia recente della Sicilia Sud-orientale è stato certamente quello del 9 e dell’11 gennaio 1693.
Ecco i documenti, riguardanti Ispica finora portati alla luce, che ce ne hanno tramandato la memoria. Il dott. Leontini nel 1932 pubblicò il verbale del terremoto sottoscritto dai giurati, dal parroco don Antonino Li Favi e dai guardiani dei tre conventi, oltre a due lettere dello stesso Li Favi ed alcune pagine del diario del sacerdote don Francesco Franzò, che comprendono un memoriale del terremoto ed altre notizie sulla ricostruzione del paese. Il notaio Moltisanti e la Fronterrè Turrisi hanno ripreso queste notizie, mentre Leonardo Arminio ha pubblicato l’elenco degli 80 morti seppelliti nella chiesa Madre e a S. Antonio.
Una prima scossa accadde l’8 gennaio 1693, una seconda si ebbe alle ore 4,30 del venerdì successivo e produsse pochi danni. Una terza scossa si ebbe nella domenica seguente verso mezzogiorno, e questa mise in allarme molte persone, che ebbero la prudenza di allontanarsi dalle case e di recarsi nelle vicine campagne. Infine verso le ore 14, a ventun’ora della stessa domenica, il movimento tellurico fu violentissimo.
Nella notte di quel giorno si susseguirono altre 110 scosse, accompagnate da un forte vento e da un temporale.
Dal verbale dei danni, redatto dai giurati del tempo e dal procuratore Pietro Bufardeci, nonché dalle relazioni di due cronisti del tempo, il sac. vicario don Antonino Li Favi ed il sac. Francesco Franzò, le notizie intorno a Spaccaforno sono le seguenti:
I morti furono 1.300, rimasti sotto le rovine…eppure vi sono altri morti in seguito alle ferite delle fabbriche e che sono in numero di 1.200; i feriti sono 2.000, dei quali alcuni sono sanati, altri stanno in pericolo di morte per le intemperie dell’aria stando in campagna, ove il freddo ed il patimento gli reca molta molestia, come anche il terrore dei continui terremoti che fanno sentire giorno e notte.
Evidentemente le case maggiormente colpite saranno state quelle esistenti ai piedi del Castello, nonché quelle costruite nel fondo della valle su fondamenta poco solide. In conseguenza della distruzione d’alcune chiese dell’antica cittadina, a causa del terremoto e dei rilevanti danni subiti dalle altre, né il clero poté più compire alcun regolare atto di culto, né i cittadini poterono partecipare ad alcuna funzione religiosa.
Rimase rovinato il monastero delle monache dell’Ordine di San Benedetto e la chiesa di San Giuseppe, esistente nel quartiere, detto della Vignazza. Le 27 monache, che avevano trovato riparo in una capanna rimasero incolumi. Cadde la chiesa Madre, il convento dei PP. Carmelitani, rimase in piedi solo un pezzo di muro della facciata. Medesima sorte toccò al convento dei PP. Dell’Osservanza, del convento dei PP. Cappuccini cadde solo una parte essendo rimasta in piedi la chiesa. Caddero la metà della chiesa di Sant’Antonio, nonché le chiese di San Michele Arcangelo, di Sant’Anna e di San Biagio, ed in campagna caddero le chiese di S. Maria del Focallo, di San Teodoro e di Santa Rosalia. Le chiese di S. Maria Maggiore e della SS. Annunziata furono tutte atterrate, unitamente a quella del SS. Rosario. Delle chiese si poterono recuperare alcune immagini.
Il ricordo di tale immane sciagura è rimasto tutt’ora vivo nella cittadinanza di Spaccaforno. Nella ricorrenza di quel giorno fatale, 11 gennaio, alla stessa ora in cui il lutto e la desolazione furono l’unico retaggio dei pochi allora superstiti, i nostri di Spaccaforno piegano reverenti le loro ginocchia, innalzando devotamente al Creatore una preghiera di suffragio e di ringraziamento.
«Era il gelido gennaio 1693…», inizia così la descrizione dell’evento sismico che devastò tutta la costa Sud-Orientale della Sicilia. Nella memoria dei cronisti coevi, il 1693 segna l’inizio di un nuovo ciclo storico.
Alcuni decenni dopo, quando già si andava riprendendo la vita dal groviglio delle distrutte città, i superstiti cominciavano a trarre gli auspici per nuove affermazioni creatrici, il ricordo del terremoto veniva ancora costantemente associato alla data degli ultimi avvenimenti. Atti pubblici, registri parrocchiali, memorie epigrafiche, cronache, trovano consacrata la storica data in ogni nuova determinazione cronologica.
Una copiosa letteratura di cui fanno parte memorie epistolari, cronachette anonime, narrazioni organiche, fiorì attorno al terremoto. Ogni città, ogni borgo ebbe il suo cronista: lo stile enfatico, il colorito vivace trovano la loro ragione giustificativa nel clima letterario da cui quel secolo fu caratterizzato. Dal punto di vista storico rivestono una maggiore importanza quelle memorie che, scritte senza pretese letterarie, erano destinate a rimanere ignorate. Modeste narrazioni che gettano improvvisi riverberi di luce sull’evoluzione della nostra vita municipale l’indomani del disastro, integrando la storia dei monumenti e completando il quadro della rinascita architettonica da cui fu contrassegnato il rinnovamento edilizio della prima metà del Settecento.
Il modesto gruppo di scritti si riferisce alla storia del Comune di Spaccaforno: esso è stato esumato dalle vigili ricerche del dott. Leontini, appassionato cultore di memorie di patrie. Il primo documento è una vera e propria relazione ufficiale stesa subito dopo il disastro, dalle maggiori autorità del paese. Seguono poi due lettere del procuratore Antonino Li Favi, inviate a Roma al marchese Statella: esse costituiscono un quadro più sommario ma più vasto, dove sono descritte le conseguenze del terremoto nel Val Demone e nel Val di Noto. Chiude il gruppo un manoscritto del tempo, ricco di notizie, d’ignoto autore, il quale in forma di diario completa la scena del terribile flagello.
Verbale dei danni arrecati all’antica Spaccaforno dal terremoto dell’11 gennaio 1693, sottoscritto dai giurati del tempo, dal parroco, dai Padri Guardiani dei tre conventi.
Noi sottoscritti facciamo relazione di quanto ha operato l’onnipotente mano di Dio sdegnato per mezzo del terremoto della Domenica 11 Gennaro 1693 in questa terra di Spaccaforno, la quale trovasi in stato deplorevole con essere quasi tutta rovinata sino ai fondamenti. Sono solamente rimaste in piedi da duecento circa di piccole case, le quali rendonsi inabitabili, essendo aperte e minaccianti la rovina; tra le quali rovine non è esente il castello, solita habitatione dei Signori, il quale consistendo in fortissime fabbriche assai larghe, munito di baluardi ed ornato di un’alta e vaga torre […] ora tutto vedesi per terra, con perdita non ordinariati quanto di buono e di bello c’era di dentro, altro non vedendosi che un mucchio di pietre ammassate sopra i fondamenti, sotto le quali pure giace quantità di gente per l’altezza di essa che fu anche la rovina di tutte quelle case contigue.
All’istessa rovina soggiace la madre chiesa, la quale nun cedea tanto a cosa delli migliori di questa valle, ornata di buone cappelle e d’una ricca custodia, ed or si vede esercitato il divino ufficio ed il SS. Sacramento in una capanna […].
Vedesi anche fra le rovine il convento dei P.P. Carmelitani, il quel era delli più ragguardevoli, e stimato migliore di tutti gli altri che erano in questa provincia si per la buona fabbrica e buona comodità e sito, la di cui chiesa era molto vaga per la vastezza e l’architettura, ornata di buone cappelle; ora altro non si vede sennonché monti di pietre, essendo restato solo in piedi un pezzo di muro della facciata di detta chiesa, essendo morti due religiosi e dannificate ed uccise molte persone nel piano di esso ove si trovavano.
Medesimo caso è avvenuto a quello dei P.P. dell’Osservanza, il quale, oltre l’antichi corridoi e stanze in quantità per li religiosi assai comode, teneva spedito un nuovo corridoio di camere di molta vaghezza e con qualche spesa, in cui restarono morti cinque religiosi. Cadde parimenti la chiesa ch’era l’ornamento dell’istesso convento, per la di cui mancanza, quei religiosi che son rimasti, si trovano in una capanna con una piccola chiesa di tavole ove tengono il SS.mo ed esercitano qualche loro devotione quanto gli è permesso dal tempo.
Del convento dei P.P. Cappuccini è caduta solamente una parte essendo rimasta in piedi la chiesa con alcune celle non atte ad habitarsi e la chiesa si vede minacciante rovina, essendo fracassata, non potendo li P.P. per tal causa fare ivi i loro offici né celebrar messe.[…]
Li morti per quanto habbiamo potuto rintracciare ritroviamo da essere da mille e trecento rimasti sotto le rovine con persone di qualche consideratione e stima, eppure vi sono altri morti per le ferite ricevute dalle fabbriche e che sono al numero di mille e duecento i quali se ne morsero chi di li a poche ore dal terremoto, chi nella medesima notte e nello spazio di qualche giorno. Feriti sono due mila in circa chi grave chi leggero, dei quali alcuni sono stati sanati ed altri stanno in pericolo di morte per l’intemperie dell’aria, stando in campagna ove il freddo e il patimento gli reca molta molestia, come anche il terrore delli continui terremoti che si fanno sentire di giorno e di notte. Questo è quanto passa e quanto si è ricavato.
Giuseppe Di Lorenzo Vicerettore
D. Santoro Vaccaro Vicario
Fra Bartolomeo da Spaccaforno, Guardiano dei Minori Osservanti
Fra Pietro Pallavicino Priore dei Carmelitani
Fra Stefano da Noto Vicario dei Cappuccini
Antonio Nescio
Pasquale Surrentino
Placido Silaguglia
Pasquale Modica
Raimondo Batoli
Antonio Celesti Sindaco
D. Pietro Bufardeci Procuratore
Lettera del beneficiale don Antonino Li Favi inviata all’Ill.mo Marchese don Andrea Statella, che trovasi a Roma nel collegio dei P.P. Gesuiti, per informarlo minutamente dei danni arrecati dal terremoto dell’11 gennaio 1693 alla Sicilia, specialmente nelle città e nelle terre comprese nella Val Demone e Val di Noto. Tale lettera spedita da Palermo, ove il Li Favi si trovava per conferire col Marchese padre don Francesco III Statella, porta la data del 5 Febbraio 1693.
Ill.mo Sig. Marchese
qui (a Palermo).cadde tutta la casa, sotto le cui rovine restò la povera marchesa con i suoi figli, essendosi salvato il Marchese ed una piccola figliuola, il secondo Barone della di V. S. Ill.ma.
Restò ancora sotto le rovine la Principessa di Pantelleria in Buscema, la Marchesa di Giarratana a Giarratana; in Noto una sorella del Sign. Percettore ed una figlia naturale del Marchese D. Antonino detto il Sauro; in Modica il povero D. Carlo Grimaldi; in Spaccaforno perì tutta la casa di Bufardeci, restando vivi D. Pietro, D. Vincenzo Azzaro e sua moglie, ed io perdei D. Antonino Fronte, la pupilla degli occhi miei ed il più fedele servitore di S. V. Ill.ma.[…]
La vostra casa non è qui com’era e restando a Roma avete tutta la convenienza, tornando in Sicilia avrete nulla. In terzo luogo il Regno è un cadavere! Le circostanze correnti sono pessime; qui si temono tre pericoli grandissimi: il primo che è la peste, per la puzza di tanti cadaveri; il secondo si è quello della fame, perché non c’è più chi coltivare i campi, ed il bestiame rovina tutti i seminati; il terzo è quello della guerra, essendo le porte principali del Regno aperte, senza speranza di poterle guardare e chiudere. Chi è in Sicilia pensa a venire a Roma, e voi che siete a Roma volete tornare in Sicilia, e qual procedere mai è il vostro! Tanto vo’ dirvi con sincerissimo affetto, e voi sapete che vi amo e vi stimo, e con quanto ardore desio il vostro bene, e con che sincerità vi parlo. Lo resto tocca a voi risolvere il da fare.
Tutti la riveriscono umilmente, ed io augurando a V. S. Ill.ma ogni felicità, le bacio le mani. Se posso scriverle lo farò con tutta l’altra filuga per tutto quello che mi comanda.
Palermo li 5 Febbraro 1693.
D. Antonio Le Favi.
In un’altra lettera il Li Favi seguita a descrivere al marchese don Andrea gli effetti del terremoto:
Ho pensato alla S.V. Ill.ma descrivere gli effetti del terremoto, che nello spazio di un miserere o poco più ingramagliò la Sicilia, e distruggendo quasi tutto il Val di Noto e buona parte del Val Demone, diede l’ultimo crollo a questa tormentata isola. Sappia dunque V. S. Ill.ma come il giovedì otto del caduto Gennaro s’intese un piccolo terremoto il qual non fu avvertito che da pochi; il venerdì seguente giorno 9 di detto mese ad ore quattro e tre quarti se ne intese un altro che scosse tutto il regno, ma non fece danno di considerazione, senonché in alcune parti del Val di Noto, come fra le altre Noto e Sortino; questo avvenimento pose in qualche apprensione il Regno e quel Valle in parte, la Domenica ad ore 17 in circa se ne sentì un altro nel solo Val di Noto, e questo pose in tal apprensione le persone, che moltissime si misero in salvo allontanandosi dai fabbricati e dai luoghi ove potessero partire. La medesima Domenica ad ore venti e tre quarti in circa s’intese quello che fece la stragge più deplorabile che si fosse mai verificata nei secoli trapassati.[…]
Se volessi puntualmente descrivere alla S. V. ill.ma tutti gli effetti del terremoto, ci vorrebbe un grosso volume, e forse non mancherà chi lo faccia; come tale basta per ora sapere queste notizie che ho potuto darle tumultuariamente. Caddero pure li famosi castelli di Licodia e Mongialini.
Devotissimo Antonio Le Favi.
Manoscritto di ignoto autore pubblicato da Rosa Fronterrè Turrisi nel libro Il terremoto dell’11 gennaio 1693 con speciale riguardo a Ispica.
11 FEBBRAIO 1693 Oggi ricorrendo la data del primo mese dell’accaduto terribile terremoto dell’11 gennaio 1693, è cominciato un turno di funerali nelle poche chiese rimaste non gravemente danneggiate dall’orrendo cataclisma, in suffragio delle povere vittime che trovarono la morte sotto le macerie delle proprie case ruinate a causa della tremenda scossa. Essendo rilevante il numero dei sacerdoti, sì regolari che laici, sono state adibite a scopo di culto molte case dei privati, nelle quali sono stati eretti altari provvisori per la celebrazione delle Sante Messe e per il SS. Sacramento e gli Olii Santi.
Proseguono con somma attività e sollecitudine i lavori di sgombro nei quartieri danneggiati: le famiglie rimaste senza casa, vengono ricoverate provvisoriamente nei vasti ddammusi dei Conventi del Carmine e di S. Maria di Gesù. Le moniali del distrutto Monastero di S. Giuseppe, tutte superstiti, hanno trovato rifugio provvisorio nel venerabile Convento dei PP. Cappuccini, che per fortuna è rimasto incolume, tranne la cinta dell’orto. I religiosi di detto Convento, per tale occasione hanno dovuto cercare altro rifugio, motivo per cui sono stati accolti in casa del signor barone Cuella, terziario cappuccino, il cui palazzo, sito nel quartiere Belvedere, è rimasto incolume. Le poche masserizie e le cose di valore che a mano a mano vengono fuori dalle macerie delle case, vengono raccolte con cura dagli interessati e depositati nei grandi baracconi fatti appositamente costruire da S. Eccellenza il Sign. Marchese Don Maurizio Statella sul grande piazzale del Convento dei PP. Cappuccini e custodito da guardiani fedelissimi scelti dall’illustre Sign. Marchese.
14 FEBBRAIO 1693 Continua l’arrivo in questa di moltissimi forestieri dei paesi vicini in gran parte distrutti anch’essi dal terremoto; una prima causa di questo fatto deve attribuirsi alla comodità dei molti mulini qui esistenti e rimasti perfettamente illesi, mentre furono distrutti per intero quelli dei loro paesi; altra causa, ed è forse la più importante, che S. Ecc. l’Ill.mo Sig. Marchese ha messo a disposizione di tutta la gente bisognosa le sue fosse o magazzini di frumento e di altri cereali non facendo distinzione tra paesani e forestieri.
[s.d] Oggi è stata demolita la parte di facciata rimasta in piedi, ma minacciante rovina, del Monastero di S. Giuseppe; è stato rinvenuto quasi intatto il cadavere della suora portinaia tenente ancora sulle ginocchia un scaldamano; al secolo si chiamava Maria Maucieri, in religione Suor Agnese; è stata sepolta nella fossa del distrutto Monastero, in una specie di cisterna secca, dove sono stati sepolti tutti i cadaveri rinvenuti nelle case adiacenti a detto Monastero. All’ora di nona è stato trasportato processionalmente il Divinissimo dalla Matrice, distrutta in gran parte e minacciante la totale rovina, nella chiesetta delle Anime Sante, o meglio di S. Antonino, sulla strada della Barriera. Da detta chiesa Matrice è stato pure trasportato in un locale più sicuro un antico Crocifisso dipinto su una Croce di legno, pel quale dai Signori Ecc.mi Marchesi era stato fatto costruire un ricchissimo e costosissimo altare di marmo.
20 FEBBRAIO 1693 E’ qui giunto proveniente da Palermo con 170 operai murifabbri S. Ecc. il Sig. Principe Don Blasco Maria Statella, fratello del qui regnante Marchese Don Maurizio; l’accompagnano due ingegneri palermitani per la sistemazione dei nuovi quartieri del paese in prosieguo già esistente, poco o niente danneggiato, stendendosi dalla parte a mezzogiorno del Colle Calandra.
23 FEBBRAIO 1693 A causa di un forte vento imperversato tutta la notte e parte della giornata, è crollata rumorosamente l’ala destra del Palazzo Marchionale, causando la totale rovina della facciata dell’Annunziata, già pericolante; si è lavorato tutta la giornata per spogliare detta chiesa di tutto quanto poteva ancora servire al culto.
24 FEBBRAIO 1693 La famiglia dell’Ill.mo Marchese ha oggi stesso abbandonato la parte del Palazzo della Forza rimasta abitabile dal lato di tramontana ed ha preso alloggio in un quarto del Convento del Carmine, quarto riservatola Reverendissimo Padre Salvatore Statella nelle sue brevi soste in questa e attualmente in missione in qualità di Visitatore generale per tutti i Conventi Carmelitani della Sicilia.
[s.d] È morta oggi di febbre ardente l’unica e giovine figlia del barone Terzo. Questa povera giovine, di appena diciassette anni di età, bellissima e virtuosissima, vedesi sprofondare il pavimento sotto i piedi; restò incolume per un vero e proprio miracolo; lo spavento provatole tolse l’uso della parola per alquanti giorni, poscia cadde ammalata aggravandosi di giorno in giorno è spirata oggi alle ore vent’una, mentre le poche campane delle chiese rimaste suonavano l’ora della morte di Nostro Signore. È stata sepolta nella Chiesa del Carmine, vicino all’altare del SS. Crocifisso.
Il quartiere più danneggiato e nel quale si sono trovati più morti e feriti è quello della Forza, dove nessuna cosa è rimasta in piedi, in questo quartiere erano le migliori case e palazzi del paese. Non pochi abitanti di quelle località si sono rifugiati nelle spaziose grotte esistenti che fino ad allora erano adibite come deposito di foraggi e cantine.
27 FEBBRAIO 1693 Per il momento non è possibile stabilire una esatta statistica del numero dei morti a causa del terremoto, perché, oltre a quelli trovati sotto le macerie, è da un mese che, giorno per giorno, muoiono altre persone, per lo più di febbri polmonari e altre malattie violente provocate dallo spavento, dal disagio della stagione invernale, che rende insopportabile la condizione di tanti disgraziati, i quali, in uno alla casa, hanno perduto tutte le masserizie e il corredo di tutte quelle piccole cose necessarie alle modeste esigenze della povera gente.
[s.d] Fra le innumerevoli rovine del quartiere della Forza, è sempre un formicolio di gente che rovista fra le macerie; si comprende che sono persone interessate e che ognuno cerca e fruga tra le macerie della propria casa, in quanto nessuno oserebbe fare diversamente, dato il grandissimo rigore voluto dall’Ill.mo Sig. Marchese ed eseguito sotto la stretta sorveglianza dei gendarmi, tanto di giorno quanto di notte, per queste incessanti e affannose ricerche che la povera gente non si stanca mai di fare, nella speranza di recuperare quel che le riesce possibile recuperare.
La poca gente rimasta piange e prega…
2. Il terremoto e la scienza
Deus auspicit terram, et eam facit tremere.
I terremoti del 1693 rappresentano l’evento più importante della storia sismica della Sicilia Orientale e sono stati studiati da numerosi autori da punti di vista molto diversi. La magnitudo dell’evento principale, avvenuto l’11 gennaio è stata stimata in 7.5 della scala Richter.
Nonostante la vicinanza cronologica fra i due eventi, dalla bibliografia sul 1693 è stato possibile rintracciare un certo numero di fonti sufficientemente attendibili che descrivono separatamente gli effetti dei due eventi per un discreto numero di località.
Si tratta in particolare d’alcune lettere scritte nei giorni seguenti i terremoti – alcune addirittura il 10 gennaio, prima cioè dell’evento principale – da funzionari di diverso livello: governatori, capitani delle fortificazioni; da rappresentanti delle istituzioni locali: il Senato delle città o il loro Segretario, al viceré di Spagna, residente a Palermo e da questi trasmesse al Consiglio d’Italia, a Madrid, il 22 gennaio; a queste si aggiungono altri documenti, nella maggior parte coevi, scritti in alcune delle località colpite, con buona probabilità da testimoni oculari. La maggior parte di queste fonti fornisce informazioni relative ad una sola località, estese a volte al territorio sotto la sua giurisdizione; solo alcune contribuiscono per più località, e possono quindi giocare un ruolo di calibrazione delle notizie per le località coperte da più fonti.
Si va da documenti amministrativi, come le lettere al viceré in Palermo, ad annotazioni a margine in registri civili e religiosi, a relazioni manoscritte e a stampa di testimoni dell’evento, a storie coeve di singole località o della Sicilia. Le descrizioni possono essere di estrema sintesi degli effetti in più località, oppure offrire dettagli precisi, come nel caso della lettera del 10 gennaio del governatore di Augusta:
Desuniendo en aquel Castillo todas las obras interiores come Almagazenes y Arcos derribando una buena porcion de una torre y de otras obras, tambien la Garita de la media luna, maltratato la puerta de l’ingreso enel Castillo, y una espanda que detiene gran porcion de terreno, tambien el Baluarte de Santiago, y porcion de su cortina, y el techo de la primera puerta del Castillo y la Puerta interior. Cayò la Garita del Valuarte de Villana, quedò maltratado el techo que cubre la Iglesia, los Baluartes de S. Joseph y Sta Teresa se abrieron. En Torre Davalos se devidio por medio la torre de la Linterna, se desconzertaron los conductos que ban a la Cisterna, y se han muerto en los cuerpos de guardia y Castillos cinco soldatos (AGS, 1693a)
Di stampo più simile alla cronaca, ma resa da parte di un testimone oculare, è invece la descrizione contenuta in un’altra fonte, redatta da un mercante giunto a Siracusa il 9 gennaio, di lì partito per Augusta dove arrivò il 10 e poi salpato per Catania dove arrivò l’11, poco prima dell’evento principale.
In alcuni casi, infine, l’evento del 9 gennaio viene descritto come semplice antefatto di quanto accaduto l’11 gennaio, ad esempio la lettera del 12 gennaio, scritta congiuntamente da due funzionari di Linguaglossa:
El Secreto y Proconserbador de la Ziudad de Linguagrosa en carta de 12 avisan que el Viernes nuebe a mas de quatro horas de noche ò yeron un gran tremblor de tierra que duraria çerca de un miserere, y no hizo daño mas que aberturas en casas y iglesias ; que con el mismo terror de pitio el dia 11 à 20 horas y media y duraria otro miserere infundendo mayor horror por ser de dia y verse abrir la tierra, prepipitar los edificios, Iglesias, Combentos, y casas, los quales han quedado abbandonados, retirandose la gente havitar en la campagño pasando artas nezecidades (AGS, 1693)
Molti degli autori furono testimoni diretti degli avvenimenti e trasfusero nello scritto il terrore, la smisurata entità della tragedia, il panico degli scampati. Altri ebbero raccontato i fatti da protagonisti del dramma, o li desunsero da lettere, relazioni, diari, che circolavano nei giorni ed anni successivi al sisma per comunicare, informare o tramandare eventi tanto terribili: come dice Li Favi: «La strage più deplorabile che non si fosse mai verificata nei secoli trapassati».
Spesso specie sul numero delle vittime o sui danni nei vari centri, costoro si contraddicono fornendo versioni, a volte, opposte: su una cosa però trovano unanimità, ed è sulla vastità del disastro e sulla cappa di terrore che calò sulla Sicilia orientale.
Tra coloro che furono testimoni dell’evento troviamo un folto drappello d’uomini di chiesa, che immediatamente ne facevano relazione ai superiori, ai signori del luogo o ad amici e studiosi distanti. È il caso della lettera del P. Alessandro Burgos, che ebbe tante copie, anche a stampa, e che con accuratezza dà ragguaglio del fatto, localizzando le città colpite, i danni agli edifici principali, il numero delle vittime, specificando con precisione gli edifici religiosi e i luoghi di culto distrutti.
A livello di ricerca delle cause del terremoto non si andava al di là di un collegamento con il vulcano Mongibello, per questo, ogni terremoto era preceduto da un fenomeno vulcanico, emissione di fumo nero, fuochi e bagliori improvvisi, boati sordi. Con più prontezza e puntualità si trovarono le cause di natura morale: colpa dei terremoti erano i peccati degli uomini.
Il terremoto era visto come castigo, sanzione dovuta al popolo peccatore, e diede luogo in tutti i paesi del Val di Noto a cerimonie e processioni d’espiazione. L’ideologia della colpa, che sta alla base di tutti i riti espiatori messi in atto dopo la catastrofe, accettata dalle masse, fu subito propagata dalle autorità ecclesiastiche, come meccanismo di scarico collettivo e di rassicurazione futura.
Sono istituite, come principale ed ufficiale cerimonia espiatoria, le Quarantore in tutte le città del Val di Noto, mentre il Papa concede l’indulgenza plenaria.
In una società colpita e in un contesto socioculturale sacralizzato, la Chiesa emerge come unica forza presente e capace innanzi tutto di rispondere alle domande sul senso ultimo dell’evento sismico, ma anche di assicurare un efficace sostegno al non meno bisogno di stabilità sociale.
Al duca di Uzeda era capitata in sorte la catastrofe sismica del 9 e dell’11 gennaio, quando Dio per i suoi giudizi colpì il regno di Sicilia con così ripetuti terremoti che le città e i paesi della terza e migliore parte del regno furono rasi al suolo.
Le prime notizie del terremoto di Sicilia del 9 e 11 gennaio 1693 arrivarono alla corte di Madrid solamente il 3 marzo, al Consiglio di Stato, che si riunì per le decisioni da suggerire al sovrano il 7. Il viceré di Sicilia Francesco Pacheco, conte di Montalbano e duca di Uzeda ispirandosi ad una visione più laica dell’evento naturale ed operando su una linea di considerazioni più pragmatiche sull’entità e sulle conseguenze della catastrofe, appare subito impegnato nella predisposizione di un piano di normalizzazione e di neutralizzazione degli effetti del sisma.
Dalla parte ecclesiastica, il personaggio chiave è senza dubbio l’Arcivescovo di Palermo, Ferdinando Bazan il quale interpreta il modello teologico incentrato sull’immagine del Dio adirato che punisce ma per purificare e redimere. Emerge il ruolo della Chiesa come unica forza presente in una società duramente colpita.
Ma prima di analizzare le componenti di questo ruolo bisogna mettere in evidenza che fu delle masse l’organizzazione delle prime ed automatiche risposte ai castighi e all’ira di Dio, al fine di ripristinare il contatto con il sacro e per evitare il ripetersi dell’evento.
Sin dalle prime testimonianze avvertiamo un clima da fine del mondo, di paura collettiva. Il terrore è protagonista di quei primi giorni e, con l’attesa dello sprofondamento del Regno, sarà il compagno di decine di migliaia di persone per circa due anni. Il terremoto aveva in sé, più terribile, l’aspetto di paura riflessa, perché più degli altri flagelli, secondo le scritture, è strumento di punizione del Dio adirato.
La Chiesa, dopo l’11 gennaio era scesa in campo per ripristinare i contatti fra Dio e gli uomini e controllare che la società non si disgregasse. La Chiesa era, infatti, l’unica ad avere il rimedio per la salvezza dei peccatori pentiti con formulari e cerimoniali antichi di secoli nella loro espressione drammatica e sacrificale, con spargimento di sangue dei peccatori, la mano di Dio dalla frusta e placare la sua ira: ecco perché dopo il primo terremoto del 9 gennaio si piomba in clima di religiosità medievale di confessioni pubbliche, flagellazioni, disperazione collettiva. Di fronte a questa catastrofe la Chiesa torna a reagire come sa fare e come le prescrivono di fare gli antichi moduli tante volte collaudati. Canoni che erano impressi in maniera indelebile nell’immaginario collettivo. Dappertutto si portarono in processione i simulacri dei Santi patroni coperti da un velo nero, molti religiosi predicarono fervidamente che si presagiva l’ultima fine. Con il rito processionale, la comunità evita il male, allontanando ogni calamità e tutto il cattivo passato, fondando un mondo scevro da calamità ed esorcizzando la negatività accumulata e patita.
I resoconti descrivono una massa di uomini e di donne, gregge di pecorelle smarrite confuse dal terrore, che subito dopo la prima scossa scapparono in campagna; passate le 24 ore tornarono alle preghiere della domenica nelle chiese: tutto ciò provocò una strage grandissima. Dio aveva voluto colpire proprio le chiese, i luoghi deputati alla intermediazione fra umano e divino.
Subito dopo il sisma, a dominare fu solo la paura: paura dei nuovi e continui terremoti, paura di ricostruire per trovare distrutto.
Che potevano dunque pensare centinaia di migliaia di siciliani di fronte a questi fatti sconvolgenti, se non che era giunta la fine del Regno? Non si stavano forse avverando i segni del Vangelo e dell’Apocalisse?
Tale apparve a centinaia di migliaia di persone dunque il terremoto siciliano. I segni erano quelli indicati da San Tommaso. Sconvolta tutta la natura nei suoi quattro elementi, aria, acqua, terra e fuoco, il terremoto si era manifestato con rombi spaventosi come descrive Burgos: «come se fossero tutte insieme crepate le artiglierie del mondo», aveva «spopolato menzo Regno di Sicilia», in un clima da Giudizio universale, secondo Cuneo: «tanto può la Divina Giustizia sdegnata contro i popoli battezzati per li peccati che si commettono».
Il tema dell’ira di Dio fa sempre da intestazione ai documenti emanati dalle autorità religiose (ordini, lettere, editti).recano tutti tale credenza, mentre quelli emanati dal duca di Uzeda spesso ne sono privi.
Tutti potevano constatare le scosse che martoriavano il Val di Noto: Dio non voleva placarsi. Un’immagine di un Dio che non si placa è contenuta anche nel canto popolare raccolto da Giuseppe Pitrè. È ricorrente in questo canto l’immagine di Maria, degli Angeli e dei Santi protettori di tante città e terre che a stento riescono a trattenere Gesù Cristo che «arrancau ‘na spata» e che dice «Muriti» agli sventurati siciliani del 1693. Alcune strofe sono rivelatrici di uno stato d’animo di profonda prostrazione per le continue tragedie. Non si salva nessuno, come a Sodoma e Gomorra.
Il senso comune era che la Sicilia con l’Etna, entro l’anno, sarebbe sprofondata, forse il giorno dello stesso solstizio invernale, il 23 dicembre. Si ebbe l’impressione che più forze convergessero a creare quel clima: inutili ciarlatani, basandosi su oracoli ambigui, divennero interpreti di arcani, vaticinando luttuose sciagure.
La polemica, con l’accusa di bestemmia per chi profetizza, è probabilmente rivolta ai settori del mondo ecclesiastico che insieme coi ciarlatani facevano a gara a terrorizzare la gente. Ma mentre i primi lo facevano per ignoranza, gli altri con questo terrore volevano chiamare la gente alla conversione degli ultimi giorni.
I terremoti venivano concepiti nella mentalità dell’epoca, come eventi prodigiosi o miracolosi, collocabili al di fuori dell’ordine naturale, nella sfera dell’arbitrio divino che interviene a punire i peccatori, ammonire gli indifferenti, sollecitare il culto e la devozione dei credenti; in tale sfera assume valore l’opera interceditrice dei santi, che possono almeno mitigare la collera divina. Col passare del tempo però la componente religiosa si accompagnò sempre più, tra i ceti colti, alla curiosità scientifica e ad una riflessione sulle cause naturali che provocavano tali scuotimenti della terra.
Il viceré Ferrante Gonzaga osserva che i terremoti «per la concavità dell’isola…sono causati naturalmente et non per altra causa» (LIGRESTI 1992:13).
La spiegazione rimanda, forse, alla teoria aristotelica, secondo cui nelle concavità naturali del sottosuolo, dove gli elementi caldi e secchi possono mescolarsi con quelli freddi ed umidi, per la tendenza di quelli del primo tipo ad innalzarsi verso la propria sede atmosferica, si determinano quelle esalazioni e quei venti che producono le scosse ed i tremori del terreno; ma può anche esservi un riferimento, spesso presente nella pubblicistica dell’epoca, alla concezione democritea e atomistica della cavità della terra, contro i cui propalatori, ancora nel 1693 si scaglierà Bottone: la turba dei blateranti profetizza che dentro le cavità dell’Etna il fuoco farà precipitare moli immani, e con il monte l’intera Sicilia; altri hanno creduto di fare cosa a Dio grata divinando cose funeste (LIGRESTI 1992:15).
La dimostrazione dell’origine dei terremoti si allontana dalla teoria aristotelica, e per il suo intento sperimentale, e per la spiegazione scientifica, fondata sulla possibilità di reazioni chimiche nitro-sulfuree che, provocando esplosioni entro cunicoli sotterranei di roccia salda, determinerebbero il propagarsi dei moti tellurici.
Gli anni successivi saranno travagliati a causa di continue manifestazioni sismiche: esse continueranno per tutto il 1694, poi intensi e lunghi periodi localizzati in varie parti dell’isola si registreranno negli anni 1695, 1696, 1698, 1702, 1706, 1707, 1709, 1710, 1711, 1715-19, 1724, 1726-27, 1728, 1729, 1730, 1731 e 1732. Non meraviglia dunque che si discutesse di tali fenomeni che appassionavano non poco. Dell’origine dei terremoti si era discusso non molto tempo prima, ed era stata presentata, e difesa, una ingegnosa opinione: esser cioè i terremoti causati non dal movimento della terra, bensì da particolari movimenti dell’aria, così da determinare il crollo degli edifici. La contestazione di tale novità non viene confrontata sull’autorità dei filosofi del passato né opponendovi l’imperscrutabile giudizio divino, bensì col metodo dell’osservazione e delle dimostrazioni pratico-scientifiche.
Assegnate al campo della fantasia e dei miti le credenze e le spiegazioni degli antichi, Del Bono ritiene che potevano trovare ancora credito le interpretazioni lucreziana e aristotelica, ed espone la sua tesi:
«… è indubitato che i corpicciuoli bituminosi, sulfurei, alluminosi, o altri di simile natura, sparsi qua, e là per tutta la terra, possono da se riscaldarsi, e accendersi, massime con la mistione dell’ acque, col solo fermentarsi tra loro e col raccoglimento delle particelle di fuoco, prima disperse, e dar luogo quindi ad esplosioni sotterranee più o meno forti ed estese, che provocano, secondo la quantità di materiale infiammabile e le caratteristiche del sottosuolo e dei suoli in superfice, delle undulazioni simili a quei moti circolari dell’acqua che si formano gettando un sasso in mare, e possono coinvolgere aree più o meno vaste di territorio» (LIGRESTI 1992:16).
In quegli stessi anni (1743).Antonino Mongitore ritiene possibili cause diverse dei terremoti:
…alcuni l’ascrivono all’esser la Sicilia abbondante dappertutto di sotterranee caverne onde ricolma di esalazioni, e venti, che si generano nelle viscere della Terra nel voler uscire trovano ostacoli colle violenze commovono, o fan tremare la terra. (LIGRESTI 1992: 16)
La Sicilia, con l’Etna e Vulcano, costituiva un terreno d’osservazione privilegiato per ogni ragionamento sulla conformazione geologica del globo terrestre. La scienza moderna non riuscì a dare dei terremoti nessuna spiegazione che andasse oltre la similitudine con i fenomeni esplosivi sperimentati in superficie, e quella siciliana non mancò né di accogliere per tempo quanto si andava elaborando nelle sedi europee, né di contribuire con osservazioni, classificazioni e studi anche di grande risonanza al dibattito complessivo.
La Sicilia e il Val di Noto nel 1695 uscivano semidistrutti da un biennio tragico. Il vallo ricco, con le città più fiorenti e commercialmente vivaci, era in ginocchio. Se la Sicilia non era sprofondata, moltissimi siciliani erano stati sottoposti ad una prova che li prostrò anche fisicamente.
Bisognava in ogni modo riprendere le fila di un mondo sconnesso fisicamente e nella morale. Prima o contemporaneamente con la ricostruzione materiale, bisognava procedere alla restituzione del cosmos simbolico di riferimento. Bisognava riappropriarsi degli spazi: vie, piazze e case, riconsacrare il suolo affidandolo nuovamente alle forze della cultura e del vivere quotidiano. Inoltre bisognava riportare l’ordine morale sulla terra, regolando la vita dei fedeli, con l’allontanarli dai peccati: per primi gli ecclesiastici furono richiamati alla nuova moralità.
La direzione della ricostruzione, dopo l’avvio bruciante del 1693-1695, grazie a Uzeda, Camastra, Felix Haedo e gli altri ministri, con i successori di Uzeda s’impantana. Le ostilità della nobiltà siciliana contro le segreterie viceregine, la mancanza d’uomini colti e capaci al governo dell’isola, indebolirono il ruolo degli ultimi viceré spagnoli.
La nobiltà tutt’altro che al tramonto, accrebbe la propria forza. Nel vuoto del potere centrale le classi dirigenti locali civili e religiose, presero in mano la direzione della ricostruzione. La Sicilia spagnola era morta col terremoto del 1693.
3. Il terremoto nella cultura popolare
La diversità delle testimonianze storiche è quasi infinita. Tutto ciò che l’uomo dice o scrive, tutto ciò che costruisce e che tocca può e deve fornire informazioni su di lui.
(M. BLOCH 1949)
«All’unnici ‘i jnnaru, a vintinura piccili e ranni sutta li tumpuna…» si tratta del primo e terzo verso di un canto popolare che il nostro popolo tramanda da un anno all’altro, dal tempo dell’apocalittico terremoto, ricordato con l’appellativo di Tirrimotu Ranni dell’11 gennaio 1693; ecco il canto per intero:
All’unnici ‘i jnnaru, a vintinura
fu pi tuttu lu munnu ‘na ruina.
Piccili e ranni sutta li tumpuna
ricienu: «Ajutu» e nuddu ci ni rava.
Si nn’era pi Maria, nostra Signora
tutti fòrrumu muorti all’ura r’ora;
all’ura r’ora, ciancirièmmu forti
si Maria nun facia li nostri parti
c’è bisuognu ri stàrici a li curti ,
ca cala Cristu cu scritturi e carti L’undici di gennaio alla ventunesima ora
fu per tutto il mondo un disastro.
Piccoli e grandi sotto le macerie
dicevano: «Aiuto» e nessuno gliene dava.
Se non fosse stato per Maria, nostra Signora,
tutti saremmo morti a quest’ora;
a quest’ora piangeremmo fortemente
se Maria non avesse preso le nostre difese
c’è bisogno di starle molto vicini,
perché (per sua intercessione).scende Cristo con scritture e carte (per venire in nostro aiuto).
Più che una canzone questo è un carme di 259 versi endecasillabi, originariamente con l’accento sulla 6ª e sulla 10ª sillaba, che i nostri avi impararono a memoria, durante le lunghe sere delle quindicine trascorse nelle masserie lontani dalle famiglie, e che si tramandarono di padre in figlio. La quindicina era un periodo di tempo lavorativo che i padroni pagavano ad ogni garzone, che in realtà lavorava nella masseria 13 giorni (dal lunedì mattina al sabato pomeriggio della settimana successiva), se il garzone era ammogliato, 14 giorni se non lo era (tornato a casa il sabato pomeriggio, questi rientrava la domenica mattina). Eccone i primi versi, quelli più significativi:
Oh, timurenza, gghintili signuri!
Vuogghiu ‘n casu ‘ncrimenti ancuminciari
ca Cristu manna ppi li piccaturi
e ogn’uomu ci avissi a pinzari.
Arricuru a Bui, Supremu Criaturi,
rati la forza a ‘sta lincua lu spiecari:
‘n venniri a la notti, a li cinc’uri
menu ‘na cuarta ppi gghiustu parrai,
forti la terra ‘ncuminciau a trimari.
Chistu è lu primu avvisu, ram’ accura,
ca ora vi lu viegnu a riccuntari:
a la ruminica, ‘n circa a vintin’ura,
cumparsi lu gghiurizziu universali
ch’era sbavientu ppir ogni creatura.
Si nn’era pi Maria ca stap’a primari,
lu ‘nfiernu ni sirvia ppi sipurtura.
Risgrazzia! Si rapiu lu ‘nfiernu, allura:
fu mannata ri Cristu Anniputenti
e ppi castiari ‘sta mala natura.
Piccaturi austinàtu, picchì nun sienti?
‘N terra carièrru li tetta e li mura,
casali, cittati e continenti.
Si ppi disgrazia rurava ‘n cuartu r’ura,
ri la Sicilia nun arrestava nenti.[…]
Oh, timore, gentili signori!
Voglio un caso inclemente incominciare
Che Cristo manda per i peccatori
e ogni uomo ci dovrebbe pensare.
Ricorro a voi, Supremo Creatore,
date la forza a questa lingua lo spiegare:
un venerdì notte all’ora quinta
meno una quarta per giusto parlare,
fortemente la terra incominciò a tremare.
Questo è il primo avviso, badiamo,
perché, ora ve lo vengo a raccontare:
la domenica, all’incirca alla ventunesima ora,
comparve il giudizio universale
ch’era spavento per ogni creatura.
Se non era per Maria che sta a pregare,
l’inferno ci serviva come sepoltura.
Disgrazia! Si aprì l’inferno, allora:
fu mandata da Cristo Onnipotente
per castigare questa mala natura.
Peccatore ostinato, perché non senti?
In terra caddero i tetti e i muri,
casali, città e continenti.
Se per disgrazia durava un quarto d’ora
della Sicilia non restava niente.[…]
Il terremoto dell’11 gennaio 1693 in C. Melfi, Cenni Storici su Chiaramonte Gulfi, Ragusa, 1912, p.155:
O piccaturi a quali scopu offienni,
a cui po fari e sfari milli munni,
nun viri ca pi tia ci è grazii eterni,
Gesù Cristu ti ciama e nun rispunni.
Si ccu stu tirrimotu nun ti ammienni,
certu ca ti ni vai a li profunni,
‘ntiempu tri creddi vittimu ddu juorni
giustizia, morti, pararisu ‘nfiernu.
E prufunni ci è abbissu senza juorni,
cu va ddà e na vittima r’infiernu,
cu e rassu voli stari re cuntuorni,
divi amari Gesù cu amuri eternu.
Cristu ca la sentenza resi ora,
lu ‘nfiernu spalancau na chidda ura,
rissi lu piccaturi mora, mora,
lu pararisu nun si rapi ancora.
Erimu junti a giustizia e morti,
appuntu appuntu a venturi e tri quarti,
su Maria nun rapia i porti,
avissimu ristatu tutti muorti.
O Matri santa ca tuttu putiti,
sempri avvocata ri li nustri piccati
dunca Matri santa vuliti;
ca sia fatta ri Diu la vuluntati?
O piccaturi ca fusti avvirtutu,
cu lu castiu ri Diu ca ti a mannatu,
nun stari surdu nun fari lu finciutu,
abbannuna pi sempri lu piccatu.
Lu sieicientunovantatri accuriu,
l’abbissamientu ri lu val ri Nuotu
la Sicilia tutta s’impauriu.
Ppi la putenza ro tirrimotu.
Fuoru scacciati fra nu quartu r’ura,
vintimila armi e fuorsi ciui ancora,
Carlintini e Scurdia fuoru in abbissu,
a Sirausa si finiu lu spassu.
A Giarratana e Nuotu fu lu stissu,
ca si abbissaru e fabbricare a rassu,
finiu Palazzuolu e Muntirussu,
Lintini ni ristai stancu e lassu.
Spaccafurnu si appi a subbissari,
a Scicli fu giuriziu universali,
Muorica sinniu ppi li strapunti,
pirchì si ni scacciare milli e tanti.
Buscema si ni iu tra peni e cianti,
Vizzini subbissau miemzu ru munti,
Miniu, Palaunia e autri tanti,
ni ‘ntisiru li scossi furminanti.
Dannu ni risintiu Ciaramunti,
ca Maria li so figghi vosi esenti,
Liccudia ni patiu li scunti
ri chistu gran castiu forti e putenti.
Lu dannu fu immienzu ca successi,
lu sieicientinovantatri ca vi rissi,
chidda petra ca ‘mpieri si resi,
u vuluntà ri Diu ca lu primissi.
Ludammu ora milli voti e cientu,
lu Criaturi ro munnu e firmamentu.
Ca resi lumi e forza a Pietru Vettu
Ri cumporri sta piccula raziunetta. O peccatore a qual scopo offendi,
chi può fare e sfare mille mondi,
non vedi che per te c’è la grazia eterna,
Gesù Cristo ti chiama e tu non rispondi.
Se dopo questo terremoto non fai ammenda,
di certo sprofonderai di nuovo;
nel tempo di tre «credo» vedemmo quel giorno
giustizia, morte paradiso e inferno.
E nel profondo c’è abisso senza giorno,
chi finisce là è una vittima dell’inferno,
e chi vuol stare lontano dai bordi
deve amare Gesù con amore eterno.
Cristo che diede questa sentenza ora,
spalancò l’inferno in quell’ora,
disse al peccatore muori, muori
il paradiso non si apre ancora.
Eravamo giunti a giustizia e morte,
proprio a quel vent’ore e tre quarti,
e se Maria non avesse aperto le porte,
saremmo restati tutti morti.
O Madre Santa che tutto potete,
sempre avvocata per i nostri peccati
Dunque Madre Santa volete voi,
che sia fatta di Dio la volontà?
O peccatore che fosti avvertito,
col castigo di Dio che ti fu mandato,
non essere sordo non fare l’indifferente,
e abbandona per sempre il peccato.
Nel seicentonovantatrè accadde
l’inabissamento del Val di Noto
e la Sicilia tutta s’impaurì
per la potenza del terremoto.
Furono schiacciate nel tempo di un quarto d’ora,
ventimila anime e forse più,
Carlentini e Scordia furono subissate,
e a Siracusa si finì la vita.
A Giarratana e Noto fu la stessa cosa,
che scomparvero e dovettero rifabbricarle,
e finirono Palazzolo e Monterosso,
e Lentini restò stanca e prostrata.
Spaccaforno si sconquassò,
a Scicli fu giudizio universale,
Modica andò oltre ogni limite
perché morirono schiacciati mille e oltre.
Buscemi scomparve tra pene e pianti,
Vizzini sprofondò fra due monti,
Mineo, Palagonia e tante altre città,
subirono le scosse fulminanti.
Danno non risentì Chiaramonte,
perché Maria ne volle esenti i suoi figli,
Licodia però patì questo sconto
di questo gran castigo forte e potente.
Il danno che successe fu immenso,
nel seicentonovantatrè che vi ho raccontato,
e quella pietra che rimase in piedi,
fu per volontà di Dio che lo permise.
Lodiamo ora mille volte e cento,
il Creatore del mondo e del firmamento.
Che diede luce e forza a Pietro Vetta
Per comporre questa piccola razione.
4. Il terremoto e la vita civile
I documenti ufficiali dell’epoca, quelli in nostro possesso, non parlano dei fatti del 1693; ci fanno solo sapere che la vita riprese a pulsare, nelle terre di Spaccaforno, sotto la direzione dei nobili giurati Pasquale San Martino, Placido Selvaggio, Pasquale Modica e Raimondo Lentini. Questi erano incaricati, fra le altre cose, di stabilire le mete annue, e dopo il grande sisma si riunirono come di consueto il 2 agosto (Archivio Storico del Comune di Ispica, vol. 132 f. 119, mercuriali 1653-1840, registro delle mete). Nel Seicento le mete erano fissate dai giurati e dalle Deputazioni elette, una volta l’anno, talvolta anche in sedute pubbliche. Nella prima metà del Settecento le mete venivano fissate da Deputazioni costituite da: giurati, sindaco, regio proconsole, gentiluomini, negozianti, maestri e massari. Nella prima metà dell’Ottocento era il decurionato a fissare le mete.
Si può affermare che le persone seppellite a Spaccaforno furono 80. La esatta informazione ci è data dai registri di morte esistenti presso la chiesa Madre, unica parrocchia ai tempi del sisma, ove è riportato l’elenco delle
persone morte sotto le fabbriche per lo gran terremoto fatto il dì 11 gennaio 1693 e sepolte nella Chiesa Matrice di San Bartolomeo.
Antonio Alfieri, sua moglie e i figli Suddiacono don Vincenzo e Pietro-4
Sacerdote don Giovanni Randazzo-1
Mastro Antonio Fronte e figlio Diego-2
Matteo Figura-1
Antonio Golino del fu Giacomo-1
Maria, moglie di Michelangelo Artibali di Roma e la figlia Angela-2
Stefano d’Amore-1
Margherita, figlia di Francesco Piazzisi-1
Francesca, moglie di Carmine Golino-1
Antonina, moglie di Lorenzo Lorifici-1
Elina Casparella-1
Mattia, moglie del fu Pietro Scorfano-1
Antonia, moglie del fu Paolo Fronte-1
Petra, moglie del fu Baldassarre Benedetto-1
Antonino, figlio di Luciano La Licata-1
Pietro Corbo e la moglie Vincenza-2
Giò Pisana, figlio del fu Francesco e la madre Vincenza Lopres-2
Vincenza Denaro del fu Giuseppe-1
Michele Cuella, carmelitano Sacerdote-1
Antonino lo Persio-1
don Antonino La Monnica, figlio del fu mastro Vincenzo-1
massaro Giuseppe Calabresi-1
Corrado Monaca del fu Vincenzo Monaca-1
Gerolamo Schillaci-1
don Antonino Fronte, medico, del fu Giovanni-1
Masi Cannata-1
Francesco Mallo-1
Natale Pastori, sposo di Margherita Lo Monaco-1
Francesco Sambiero e figlio Ignazio-2
Anna, moglie del fu Filippo Rosa-1
Dorotea,moglie del fu Michele Busto-1
Francesca, moglie di Giò-Battista Roselli-1
Pelegra, moglie di don Francesco Luca-1
Vincenza Cuella, moglie del fu Paolo Bufardeci e le figlie Angela e Isabella-3
Francesca, moglie del fu Vincenzo Ruffino-1
Catarina Ardibisso e il fratello Vittorio-2
Antonino Quartarone, sposo di Rosa Vasili-1
Giovanna, figlia di Corrado Roccaro di Avola-1
Giovanna, moglie di Vito Infante e le figlie Andrea e Antonina-3
Atonia, moglie di Antonino Fronte e il figlio Silvestro-2
Don Giuseppe Statella, fratello del Marchese-1
Antonina, moglie del fu Antonio Calura-1
Dorotea, figlia di Pietro Lo Pilato-1
Margherita, moglie del fu Vincenzo Asparo-1
Agata, figlia di Bernardo Lupo di Siracusa-1
Battista Lupo, figlio del fu Silvestro-1
Morti per lo terremoto seppelliti in S. Antonio Abbate
Fabbrizia, Felice Vittoria e Pietro figli di Matteo Quartarone-3
Giovanna, figlia di Michele Lo Cicero-1
Atonia Palazzolo, moglie di Giò-Masuzzo-1
Margherita, moglie di Antonino Fronte e le figlie Suor Maria, Suor Rosalia, Mattia e Agata-5
Atonina Floridia, madre di don Vincenzo Floridia-1
Francesco Carruba-1
Lorenzo Vaccaro-1
Don Vincenzo Aparo del già Pietro nel Carmine-1
Palma Restivo, moglie di Battista Cavarra-1
Catarina, moglie di Luca Belloguardo-1
Corrada, moglie di fu Battista di Vito-1
Vincenzo Cavarra (si seppelliu a 15 febbraio al Carmine)-1
Antonina Falcone, moglie di Antonino Cavarra-1
Francesco Mangranile, pittore di Messina muore sotto le fabbriche e fu accolto nella Chiesa di
S. Antonio Abbate-1
Di essi n. 35 erano maschi e 45 femmine. Fra i morti figura don Giuseppe Statella fratello del marchese di Spaccaforno, rimasto schiacciato sotto le rovine del Castello e seppellito poi nella Chiesa Madre il 1 febbraio 1693.
Del terremoto del 1693 troviamo traccia nell’archivio parrocchiale della chiesa Madre nel registro dei battesimi e in quello dei matrimoni.
Il terremoto lasciò profondi segni di sgomento specie i più poveri patirono la paura, il freddo, la fame e l’incertezza del domani. Il commercio si paralizzò.
È da presumere che per alcuni mesi si pensò solo a piangere e a rimuovere le macerie per recuperare le cose più care: dovette pensarsi che il mondo fosse finito.
Le disgrazie del terremoto aprirono, però, nuove frontiere e nuove prospettive alle famiglie povere. I contadini, preferendo ai campi la manovalanza urbana, abbandonarono numerosi i feudi. In un certo senso il terremoto segnò l’inizio di una nuova epoca, una rivoluzione sociale che si accompagnò alla nascita di un nuovo fenomeno: l’emigrazione.
Già incatenati alla terra e al feudo i contadini approfittarono della confusione per lasciare i vecchi padroni, ciò scatenò le ire dei baroni e degli agrari che si vedevano sfuggire dalle mani la manodopera agricola. A nulla valsero le promesse e le minacce: l’emigrazione era ormai divenuto un fatto inarrestabile.
Anche a Spaccaforno partirono numerosi gruppi di braccialieri e artigiani e raggiunsero, bene accolti, le località ove maggiormente ferveva l’opera di ricostruzione.
La reazione del governatore Statella, per mostrare la sua potenza, non si fece attendere.
I suoi antenati, oltre due secoli prima, avevano acquistato le terre di Spaccaforno con tutte le pertinenze e con tutti gli uomini e le donne che erano dentro il feudo. Il diritto di giurisdizione era ancora valido e ciò gli consentiva di esercitare pienamente il potere; forte di tale diritto, inventò un nuovo metodo espoliativo e dispose che gli stabili urbani di proprietà di quelle famiglie e persone nazionali di questa terra di Spaccaforno che da cui volevano emigrare per domiciliarsi altrove dovevano essere consegnate alla sua azienda «per donarle ad altre famiglie che qui venivano a domiciliarsi o locarle a conto dello Stato Baronale» (ARMINIO 1985).
Francesco Fronte